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Jules Renard era nato in campagna da un campagnolo di Chitry-les-Mines, comune della Borgogna che contava (e conta) poche decine di anime. "Il mio centro spirituale non è Parigi" diceva "ma Chitry, il paese di mio padre. È là ch'io vivo, come sempre vorrei viverci". In quel mondo agreste trascorse gli anni della formazione e della prima maturità facendo il cacciatore, e fu lì, tra "le modeste fronde dei pioppi e le spocchiose frasche dell'alloro", tra capre, libellule, chiocciole e rospi, che scoprì e descrisse con occhio da chimico e cuore d'artista il pullulio nascosto e brulicante che scavava, calpestava e sorvolava quelle terre. Renard offrì il suo servizio alla scienza con una prosa "agile e fresca come l'aria" (così la definì Tristan Bernard), levigata, in realtà, a fronte di penose fatiche e con la meticolosità dell'alchimista. "Del suo stile" scrisse il suo biografo Maurice Mignon "si può dire quel ch'egli dice di una sua protagonista, Ragotte: È così naturale che a tutta prima ha l'aria di essere un po' sempliciotta; bisogna guardarla a lungo per vederla". In una vera e propria "caccia alle immagini", ecco plasmarsi nella fulminea subitaneità di un dettaglio il gloglottio delle tacchine, i modi "da carabiniere" della cavalletta, il berretto frigio, il gozzo in fuori e il becco infaticabile delle galline, tra angolature essenziali di poche parole, istantanee fuggevoli e perfette che hanno reso questo libro un piccolo capolavoro al crocevia tra scienza e poesia.